il Cappuccino: L’ITALIA S’E’ DESTA

26 giugno 2011

Al prossimo giro sono duecento.

Tuffo un’occhiata nel cappuccino bollente, e penso a come, quanto sarò cambiata tra cinquant’anni, a come e quanto sarà cambiata la mia Nazione. Se i miei occhi avranno mantenuto lo stesso tono d’azzurro, o se si saranno stinti col tempo; e se allo stesso modo, ogni colore dipinto sui volti della mia gente avrà perso valore.

Torno a spostare lo sguardo, prima sulla tazza, poi alla finestra e sui palazzi fuori. Sono ancora in costruzione. Le nuvole che li comandano non spiccano come al solito nel loro bianco, oggi portano pioggia, oggi tendono al grigio, sembrano solo grossi accumuli di fumo usciti da camini enormi. Non è il massimo che ci si potesse aspettare, dal mattino di questo 17 marzo, ma se proprio non brilla, qualche raggio di sole a sforbiciare il cielo attorno almeno c’è.

In questo bar si respira aria d’Italia. Sulla schiuma chiara del cappuccino, il barista ha scritto “150” con un filo di cioccolato. Quando vai a pagare ti regalano pure uno di quei nastri inutli da mettersi al collo con il moschettone, con scritto: “C’E’ PIU’ GUSTO A ESSERE ITALIANI.”

A dire la verità non succede solo qua dentro, di ritrovarsi immersi nelle celebrazioni; basta uscire a fare due passi per accorgersene, di questa voglia di sentirsi parte di qualcosa, una parte in cui siamo dentro tutti, la soddisfazione nel dire che sì, c’è davvero più gusto a essere noi.

Mi capita solo oggi per la prima volta, di notare questa semplice intenzione della gente: sottolineare la propria appartenenza alla nostra nazionalità, prima ancora che al nostro Stato. Siamo persone tutte uguali da questo punto di vista, condividiamo lo stesso interesse nel volerci scollare di dosso quelle etichette appiccicose; umiliazione dalla quale riscattarci, e chissà che l’anniversario dell’Unità d’Italia non risulti d’aiuto anche da questo lato. Sono piccole cose, si tratta di dettagli, quando ci si mette a cercare queste sensazioni; anche se, pur vedendoli da quaggiù, i tricolori appesi ai balconi nel centrocittà non sembrano poi tanto piccoli e inutili. Fanno da stoppino ai pensieri: come li vedi, t’accendono di verde e rosso il desiderio di veder migliorare le cose, di leggere qualche aggettivo piacevole, ogni tanto; e incorniciati accanto alle nuvole di questo cielo, le fanno apparire più bianche.

Io lo so che domani, e il giorno dopo ancora, o tra quattro, cinque giorni, di bandiere ce ne saranno ancora in giro. Qualcuna in meno, certo, ma dopotutto cosa cambia, se li si lascia ancora un po’ a prendere aria? Tanto l’Unità d’Italia c’è da 150 anni, per tutto l’anno. Poi, che non li ripieghiamo e non li rimettiamo subito nel cassetto per orogoglio o per pigrizia di mettersi alla finestra a slegare i laccetti, è indifferente, tanto sarebbero entrambe caratteristiche italianissime.

Io non ho provato, però credo che scrivere che se saluti passanti sconosciuti inneggiando all’Italia, questi ti rispondono sulle stesse note, è certo molto romantico, ma penso poco reale. Però si percepisce, questo è vero, il benessere. Come se proprio ci volesse, ce ne fosse bisogno, di questa giornata. A molti è sembrata più una domenica, se scontata o rilassante è soggettivo, ma io sono d’accordo: una pausa, un po’ di silenzio, o di dolce rumore, un attimo di respiro. Che ci ricordasse chi siamo, da dove veniamo, lasciando da parte perché, partiti, politici, polemiche, pubblico e privato e personale, e dando invece nuovamente il benvenuto alla pace e al Popolo.

La mia Unità d’Italia sorge qui, accanto al mio cappuccino ormai freddo e depresso. Risuonano le note dell’Inno e io finisco col pensare che oggi ci comporteremo da veri fratelli.

Uomini comuni che lavorano, si battono per ottenere il giusto e per rendere giusto lo sbagliato, che hanno una famiglia o che la sognano, o che semplicemente hanno scelto di non averla perchè il mondo non gira in una cinepresa, e si può anche scegliere il diverso. Persone alle quali io comunque riconosco un fervore che sì, fermenta nella sua calma; ma che si tira dietro uno scontento dalle dimensioni sufficienti per risistemare il fonodoschiena (per l’occasione in tricolore) a chi invece è sempre preoccupato a pararselo.

L’Unità non si riconosce tanto dai nastri inutli da mettersi al collo con il moschettone che ti tirano dietro qualsiasi cosa compri; lo si intercetta nel ritmo dei passi dei nostri connazionali, che sono tali prima ancora di essere alti uguali a noi, di chiamarsi come noi, di condividere la stessa classe o la stessa passione, o al contrario, che sono nostri consanguinei anche nelle diversità; perché il sangue che ha bagnato questa terra è stato di tanti e di tutti. Questo chi ci comanda l’ha dimenticato; e probabilmente a quei “fratelli” non piacerà sentirselo dire, ma l’Italia, la stessa che anima a piazze e viali, oggi s’è desta.

Ilaria Bertuzzi

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